venerdì, ottobre 17, 2025

Fra i piatti più caratteristici della tradizione culinaria islandese c’è lo svið. Consiste nel tagliare a metà nel senso della lunghezza una testa di pecora, bruciacchiarla per rimuovere i peli, per poi bollirla fino a farla diventare tenera.

I miei nonni materni vendevano la calce, erano sufficientemente benestanti da aver un titolo nobiliare paesano, i caviciaiuoli; mio nonno, mai conosciuto aveva un cavallo da corsa.

La loro casa, grande, con luogo (cortile in dialetto giuglianese) nel centro storico di Giugliano, era, durante la mia infanzia, stabilmente abitata da mia nonna e da suo fratello, zio Luigi, i sopravvissuti della loro generazione, e da Lisetta.

La sala da pranzo del reparto Mammina, che si faceva chiamare “Mammina”  perché a suo dire "a nonn" era troppo volgare e "nonna" era troppo infantile, era una grossa stanza con ampio tavolo estremamente traballante, un frigorifero, una piccola tv da 14 pollici, una minuscola stufa a resistenza dove nei mesi invernali cercavano di trarre calore nel gelo imperante, fondamentalmente scottandosi gli stinchi. I mobili interamente ricoperti di formica, logori e vintage nel senso negativo del termine, di un terribile accoppiamento marrone scuro/panna, erano tappezzati da una serie di adesivi blu e rosso acceso di una compagnia petrolifera dell’epoca, la Fina, per la quale lavorava mio zio Enzo, marito di una figlia di Mammina, in maniera talmente precisa da pensare che fossero davvero stati prodotti così. Attaccati alle pareti, senza un motivo plausibile se non la presenza dei figli del sopracitato zio Enzo, un poster di un cavallo bianco al galoppo in una foresta e della F1 anni 70 di Carlos Pace. Le pareti di un colore a metà tra il giallo tufo, il verde muffa e il grigio del tabacco fumato per anni, gli infissi lignei dai vetri traballanti. 

All'interno di questa stanza si consumava il pranzo domenicale, servito in piatti di vetro giallo trasparente e cucinato quasi sempre in maniera assai grossolana su una cucina a gas posta nella minuscola stanza adiacente e su una piccola brace posta sul balcone, dove mia nonna impersonava Muzio Scevola, girando carciofi e sottili fette di carne sulle braci ardenti, senza alcun danno da ustione, avendo, per genetica, i Giuglianesi uno strato di epidermide supplementare al di sopra dei polpastrelli, ignifugo. Il luogo era abitato oltre che da Mammina e zio Luigi, anche da Lisetta, sorellastra di mia madre e donna affetta da grave ritardo, ipoteticamente simile a quello di Cucciolo dei sette nani, estremamente infantile e affettuosissima. Lisetta aveva un solo dente e trascorreva le giornate facendo roteare molto lentamente il cranio sull'asse, compiendo ampi giri, con lo sguardo che quindi osservava il soffitto; se osava parlare o ridere troppo veniva redarguita da Mammina che, severa in maniera eccessiva, le intimava di non ridere "imitando il verso di una cornacchia". 

Mi spettava il posto a capotavola, dove, involontariamente, ero costretto ad assistere al pranzo di Lisetta. Dotata come detto di un solo dente, a occhio e croce un premolare, ella mangiava tutto con un cucchiaio, afferrandolo come si mantiene uno spazzolino. La diretta conseguenza era che, di tutta la portata, ne assumeva circa 2/3: il terzo rimanente finiva equidistribuito ai lati della bocca, sul grembiule che veniva indossato all'occorrenza, e per terra. Come se non bastasse, il momento del pranzo era intervallato dal sopraggiungere periodico di Zio Luigi, che non pranzava con noi, preferendo il calore maleodorante del suo focolare domestico. 

Zitello, acculturato ma quasi sempre furente, dal bon ton tipico degli uomini del neolitico, Zio Luigi viveva in un'ala della casa ridotta per praticità a monolocale, avendo piazzato un divano letto in configurazione letto  nella cucina, con angolo tv a volume altissimo; aveva anche un bagno e una copia del discobolo di mirone, in scala credo 1:2, adagiata sul pavimento.

Un giorno del 1993, avevo 11 anni, Zio Luigi  entra in pompa magna con un piatto contenente una mezza testa di agnello cotta, probabilmente bollita.

Zio luigi entrava periodicamente nella sala da pranzo di Mammina, rantolando vistosamente volontariamente, eseguiva una ronda mentre noi pranzavamo, si guardava allo specchio posto nella sala adiacente rantolando più forte, per poi porsi in corrispondenza del mio posto, sovrastandomi, parlando con tono aggressivo e sguaiato, lasciandomi in un tripudio di rantoli e sputacchi conseguenti sul pastone di turno, quando andava bene sugo alle cipolle e salsa, che stavo cercando di mangiare. Ricordo una volta un pasticcio di riso, denso e insapore, che nel mentre mia nonna definiva “speciale” con una voce pregna di soddisfazione.

Zio Luigi  presenta a mia madre, che sedeva alla mia destra, il mezzo cranio ovino e, come descritto, inizia a sovrastarmi.

Mia madre deve, nel senso di deve al di là della sua volontà per non mortificare Zio Luigi che si era prodigato nel cucinare la pietanza,  mangiare quella testa; ma non può mangiarla come ritiene opportuno, no. Deve seguire una sequenza spiegata da Zio Luigi in persona che, nel farlo, si aiuta con un dito, un dito che ovviamente passa esattamente sopra la mia spalla.

Novella Hannibal Lecter, mia madre mangia inizialmente il cervello; arrivata alla lingua, ricordo solo di aver urlato e di essere scappato via, in un misto allucinante di schifo e disperazione che, se ci avessero fatto un Inside Out, avrebbero dovuto inventare dei personaggi ad hoc. 

Avevo 11 anni e per un enorme arco della mia esistenza ho preteso di avere stoviglie personali, ancora adesso fatico a usare il cucchiaio, se mangi facendo rumore il mio corpo trema involontariamente e sbatto gli occhi uso tic.

Nessun commento: